Premessa
di nwo-truthresearch: l'edizione italiana del libro L'Oro del Vaticano, da cui è estratto il testo che leggerete, uscì nel 1971.
In essa pertanto non troviamo informazioni aggiornate sulla reale
estensione degli interessi finanziari del Vaticano in giro per il
mondo; questo lavoro però è un raro e prezioso documento storico ad
opera di un professore universitario statunitense che tentò, in
tutta onestà, di quantificare la reale entità di questi interessi.
Capitolo
8 del libro L'Oro del Vaticano
“Le
informazioni fornite in questo capitolo danno un'idea vertiginosa
della posizione che gli uomini del Vaticano hanno saputo creare alla
loro “ditta” nel mondo dei grandi affari.”
Nino
lo Bello
La
storia dell'anguilla che un bel giorno abbandonò il suo vivaio nel
lago di Bracciano, a circa ottanta chilometri da Roma, e percorse
l'intero cammino fino a fare un'imprevedibile comparsa proprio sotto
la finestra del papa, ha tutte le caratteristiche di una favola: e
pure è autentica.
Evidentemente
l'anguilla, muovendosi nelle profondità del lago, era penetrata in
una delle condutture sotterranee nelle quali viene immessa l'acqua
che poi arriva fino a Roma. Verso la fine del percorso la conduttura
si biforca: una diramazione va a Roma, l'altra diverge verso la Città
del Vaticano. L'anguilla aveva imboccato la diramazione che va in
Vaticano. Superata un'altra barriera sotterranea, era scivolata in un
tubo attraverso il quale si era introdotta in una delle fontane di
Piazza San Pietro, esattamente quella che si trova sotto gli
appartamenti del papa.
In
tal modo l'anguilla intasava il tubo e impediva all'acqua di uscire.
Ma quell'irriverente creatura non sarebbe mai entrata nella storia
del Vaticano se non fosse stato per Pio XII il quale, apprestandosi a
iniziare la sua giornata e gettato uno sguardo all'esterno, si
accorse con stupore che nella fontana mancava l'acqua. A colazione il
Papa segnalò alla governante la stranezza del fatto che l'acqua
zampillasse regolarmente dalla fontana situata dall'altro lato della
piazza mentre mancava dalla “nostra” (com'egli la chiamava).
Suor
Pasqualina telefonò al comando dei vigili del fuoco. Assieme ai
pompieri arrivò qualche giornalista; esaminato l'impianto della
fontana si trovò l'anguilla e la si rimosse dal tubo dov'era andata
a conficcarsi: l'acqua riprese a fluire regolarmente. L'anguilla fu
messa in un secchio e portata via.
Qualche
giorno dopo un cronista si chiese sul giornale che fine avesse fatto
l'anguilla. Siccome il Vaticano non si cura di dar risposta a domande
di questo genere, i cinici romani se la diedero per conto loro,
sostenendo che il Vaticano l'aveva venduta a uno dei tanti mercati
del pesce, il che, aggiungevano, significava l'inizio di una nuova
attività finanziaria della Santa Sede: la conquista del mercato
ittico.
Che
fine in realtà sia stata riservata all'acquatico intruso non si è
mai saputo, naturalmente; ma l'aneddoto è indicativo
dell'atteggiamento che gli scettici italiani hanno nei confronti del
Vaticano e delle sue attività affaristiche. Per essi, insomma, il
Vaticano è impegnato in una così intricata rete d'affari che anche
mettersi nel commercio del pesce non verrebbe considerato una
menomazione della sua dignità. Per quel che se ne sa, non siamo
ancora a questo; ma, a detta dei maligni, talune attività
finanziarie della Santa Sede non mandano un odore molto più
gradevole di quello del pesce.
Il
fatto è che le intraprese industriali del Vaticano sono talmente
vaste e complesse che è pressoché impossibile fornirne un quadro
completo.
Nel
capitolo precedente abbiamo analizzato la partecipazione del Vaticano
nell'industria edilizia tramite la Società Generale Immobiliare.
Cercheremo ora di delineare le sue attività nel campo della
meccanica, della produzione di energia, delle comunicazioni, delle
assicurazioni e così via.
Il
lettore tragga un respiro profondo prima di inoltrarsi in questo
labirinto.
Non
esiste quasi, crediamo, settore dell'economia italiana in cui non vi
siano gli uomini del Vaticano a rappresentare gl'interessi della
Chiesa; e quasi tutti occupano posizioni chiave nelle imprese in cui
la Chiesa ha fatto degl'investimenti. Rimangono ai loro posti,
inamovibili, col passare degli anni, e talvolta ricevono un compenso
percentuale ai profitti realizzati dalla Santa Sede.
Per
anni Bernardino Nogara figurò nel consiglio di amministrazione della
Montecatini (oggi diventata Montecatini-Edison). Diamo
un'occhiata a questa Società. Si tratta non soltanto del maggior
complesso industriale italiano, ma di uno dei maggiori del mondo, e
si occupa di miniere, di prodotti metallurgici, di fertilizzanti, di
resine sintetiche, di fibre tessili, di prodotti farmaceutici, di
energia elettrica, ed è vincolata al Vaticano da legami d'acciaio.
Non si conosce l'entità della partecipazione vaticana a questa
colossale impresa: probabilmente si tratta di una partecipazione
minoritaria, ma non per questo di scarso peso. Dopo la scomparsa di
Nogara numerosi uomini si sono succeduti al suo posto nel consiglio
di amministrazione e hanno avuto voce in capitolo in tutte le
decisioni di qualche importanza, prima fra tutte quella del 1966
relativa alla fusione con la Edison. Proprio in quell'anno il
fatturato della nuova Società è salito a seicentottantatré milioni
e novecentomila dollari, e il profitto netto a sessantadue milioni e
seicentomila. Il bilancio del '67 mostra un sostanzioso incremento in
quasi tutti i settori di attività, con un fatturato di
ottocentocinquantaquattro milioni di dollari e un profitto netto di
oltre sessantasei milioni. Gl'investimenti della Montecatini
in altre Società ammontano a poco meno di un miliardo di dollari, le
sue proprietà immobiliari a più di venti milioni di dollari, i suoi
impianti industriali hanno un valore di circa milletrecento milioni.
La
Montecatini-Edison è associata a numerose Società straniere,
tutte piuttosto floride. La Novamont Corporation di Neal (West
Virginia) sta raddoppiando la sua capacità produttiva col proposito
di dominare il mercato del polipropilene negli Stati Uniti. In Olanda
la Compagnia Olandese dell'Azoto ha recentemente ammodernato i
propri impianti a Sluiskil e portato la produzione giornaliera a
mille tonnellate di ammoniaca e duemila tonnellate di fertilizzante
al nitrogeno; ha inoltre iniziato la costruzione di un nuovo
stabilimento che sarà in grado di produrre seicento tonnellate di
urea al giorno. In Spagna la Pauler, consociata della
Montecatini, ha allestito un nuovo stabilimento a Puertollano
per la fabbricazione di polipropilene e di prodotti in tale
materiale. In India, la Madras Aluminium Company sta per
portare a cinquantamila tonnellate annue la produzione di allumina e
a venticinquemila tonnellate quella di alluminio. Il gruppo
brasiliano Heliogas è in continua espansione: serve milioni
di utenti ed ha aumentato le vendite annue di gas liquido a circa
centosessantamila tonnellate. Infine la Panedile Argentina nel
corso del 1967 ha intrapreso lavori presso le dighe del Rio Hondo e
ha completato a Ullun la costruzione di una centrale idroelettrica.
In
Italia la Montecatini-Edison controlla non meno di diciannove
Società: la Orobia, la Mineraria Prealpina, le Miniere
di Ravi, la SORAP Società Raffinazione Petroli, la Miana
Serraglia, la Ascona, la Clio, la Fortuna,
la Hermes, la Immobiliare Capricorno, la Melide,
la Parnaso, la Ribolla, la Sant'Agostino e la
Società Mineraria Presolana, tutte di Milano; la Cieli
e la Società Imprese Elettriche Scrivia, entrambe di Genova;
la Società Emiliana di Esercizi Elettrici di Parma; la Resia
di Casoria.
La
Italcementi, che è ormai al secondo secolo di vita ed è
passata sotto il controllo del Vaticano dopo la guerra, come dimostra
il nome del presidente Carlo Pesenti, nome notoriamente legato al
Vaticano, rappresenta il 32 per cento dell'intera produzione italiana
di cemento; con una produzione di oltre trentasei milioni di
tonnellate all'anno, è la quinta nel mondo in ordine d'importanza e
la seconda in Europa. Ha più di seimilacinquecento dipendenti e nel
1967 ha riportato un profitto netto di cinque milioni e mezzo di
dollari. Il capitale della Società, che ha sede a Bergamo, è di
cinquantuno milioni e duecentomila dollari. La crisi dell'industria
edilizia che colpì l'Italia dopo il 1964 la toccò abbastanza, e
infatti i profitti, che erano stati di quattro milioni e duecentomila
dollari nel 1965, scesero nel '66 a meno di quattro milioni. Ma la
compagnia ha assorbito abbastanza agevolmente la battuta d'arresto e,
come attestano le cifre del '67, la ripresa è stata abbastanza
rapida. Massimo Spada, consigliere delegato, è del parere che
l'inizio degli anni settanta vedrà una vigorosa ripresa. In questa
prospettiva la Italcementi ha costruito e messo in funzione un
nuovo stabilimento presso Brescia, di vasta estensione e con una
capacità produttiva di seicentomila tonnellate all'anno, in gran
parte cemento di nuovo tipo detto “Supercemento Italbianco”, a
presa rapida e di particolare resistenza.
La
Snia-Viscosa di Milano, che produce in Italia più del 70 per
cento delle fibre tessili artificiali e sintetiche, è notoriamente
guidata da finanzieri vaticani. Non appartiene direttamente alla
Santa Sede, ma è legata alla Cisa-Viscosa, produttrice di
fibre viscose e di rayon, a alla Saici, fabbrica di cellulose,
che appartengono, esse sì, al Vaticano. In più, la Snia
possiede importanti partecipazioni nel Cotonificio Veneziano
che è sotto il controllo del Vaticano. Tra gli azionisti della
Snia-Viscosa, il cui capitale è di ottantanove milioni e
seicentomila dollari, è il gruppo tessile inglese Courtaulds;
a sua volta la Snia è proprietaria di due attivissime Società
tessili spagnole, di due in Brasile, due in Messico ed una ciascuna
in India, Argentina e Lussemburgo, nelle quali il Vaticano ha
partecipazioni che in alcuni casi raggiungono la maggioranza del
pacchetto azionario. Per il 1966, anno in cui ha ricavato un profitto
netto di nove milioni e settecentomila dollari, la Snia-Viscosa
ha pagato un dividendo di centotrenta lire per ognuna delle sue
quarantasei milioni e più di azioni. Nel 1967 i profitti calarono
vertiginosamente a trecentodiecimila dollari, e la Società, pur
lasciando invariato il dividendo, chiese agli azionisti di
considerare l'opportunità di fondersi con una delle numerose
compagnie similari, il che porterebbe a una “diversificazione”;
operazione oggi effettuata con particolare frequenza dai regolatori
della strategia economica del Vaticano.
Una
delle maggiori Società del Vaticano, la Manifattura Ceramiche
Pozzi, produttrice di lavabi, vasche da bagno e altre
apparecchiature igieniche, ha conosciuto negli ultimi anni grosse
difficoltà.
Il
passivo del 1967, ammontante a due milioni di dollari, aggiunto a
quello accumulato negli anni precedenti, portò a poco meno di
quattordici milioni di dollari il deficit complessivo. Nessuna
sorpresa, quindi, che nel corso del '68 il Vaticano abbia gettato
nella mischia uno dei suoi più abili “salvatori di bilanci”, il
conte Enrico Galeazzi, che è entrato nel consiglio d'amministrazione
come vicepresidente.
Con
il suo capitale di circa trentasette milioni di dollari, la Pozzi
è tuttavia una solida realtà nell'economia italiana. Aprendosi a
nuovi campi di produzione (materie refrattarie, vernici, plastica,
prodotti chimici) la Società, ricca di un'autentica tradizione, è
riuscita a riorganizzarsi e dopo il 1967 ha condotto a termine la
costruzione di una fabbrica d'impianti igienico-sanitari per il
Governo ungherese e il progetto di uno stabilimento a Biserta per
conto del Governo tunisino, entrambi realizzati da tecnici e
maestranze della Società.
La
Pozzi possiede anche il 90 per cento delle azioni di una
Società francese e il 13 per cento di una brasiliana, che hanno
entrambe conseguito, negli ultimi anni, vistosi utili, ed è l'unica
proprietaria del nuovo stabilimento chimico Pozzi Ferrandina
di Milano, che ha iniziato l'attività nel 1967 con un capitale di
circa diciotto milioni di dollari. Da quando il conte Galeazzi si è
installato alla guida della Società, la Pozzi ha ripreso il
suo cammino ascensionale, si avvia a risolvere la crisi e punta a
superare entro pochi anni la cifra di quarantatré milioni di dollari
di esportazioni, massimo livello raggiunto negli anni di maggior
floridezza.
Tra
le più ramificate Società di cui il Vaticano abbia il totale
controllo è l'Italgas, con sede a Torino. Forte di un
capitale sociale di almeno sessanta milioni di dollari, questa
Società fornisce il gas, tramite compagnie affiliate, a trentasei
città italiane, fra cui Roma, Torino, Firenze, Venezia. Nell'anno
finanziario 1967-68 ha erogato seicentosettantanove milioni di metri
cubi di gas per usi domestici, ricavando un profitto netto di circa
tre milioni e mezzo di dollari.
Negli
ultimi due decenni la Italgas ha assunto il controllo di un
buon numero di Società tutte in qualche modo legate all'industria
del gas: Cledca (catrame), Iclo (anidridi), Funivie
Savona San Giuseppe (minerali ferrosi e fosforo), Fornicoke
(coke per altiforni), Pontile San Raffaele (coke),
Cokitalia (distillati), Società acque potabili di
Torino, Carbonifera Chiappello (impianti di riscaldamento),
Propaganda Gas (stufe), Urbegas (impianti per il gas),
Forni ed impianti industriali Ingg. De Bartolomeis di Milano
(forni per l'industria). Di quest'ultima la Italsgas possiede
soltanto una caratura del 20,29 per cento.
Qualche
tempo fa mi capitò di dire a un amico americano in visita a Roma che
il Vaticano era proprietario di una fabbrica di spaghetti. “Il
Vaticano”, osservò facetamente il mio amico, “si farà ricco
maneggiano tutto questo grano!”
La
Molini e Pastifici Pantanella, di cui il Vaticano ha la
proprietà completa, è una Società produttrice di vari tipi di
pasta, nonché di panettoni e di una gran varietà di tipi di
biscotti. Forte di un capitale di sedici milioni e trecentomila
dollari, la Pantanella raccolse nel 1966 un profitto netto di
oltre duecentonovantamila dollari, ma l'anno successivo subì un
tracollo. Secondo il suo amministratore, Marcantonio Pacelli, il crac
fu principalmente dovuto ad alcuni provvedimenti governativi del
luglio del 1967, che procurarono fastidiose restrizioni ai pastifici
e imposero un controllo sui prezzi del grano. Ma, come il mio amico
evidentemente sapeva, il Vaticano non rischia certo di perdere
“grano” (vocabolo che gl'italiani usano per “danaro”) con
tutta una serie di Società di cui esso ha la proprietà o il
controllo completo, o che è in grado d'influenzare grazie a
partecipazioni minoritarie, e che secondo i più recenti calcoli
godono ottima salute. Si tratta delle seguenti società: Società
Mineraria del Trasimeno (capitale tre milioni e duecentomila
dollari), Istituto Farmacologico Serono (un milione e
quattrocentomila dollari), Società Dinamite
(seicentoventiquattromila dollari), Torcitura di Vittorio Veneto
(ottocentomila dollari), Fisac-Fabbriche Italiane Seterie e Affini
Como (tre milioni e quattrocentomila dollari), Concerie
Italiane Riunite di Torino (quattro milioni di dollari),
Zuccherificio di Avezzano (un milione e seicentomila dollari),
Cartiere Burgo (ventitré milioni e duecentomila dollari),
Industria Libraria Tipografica Editrice di Torino (un milione e
seicentomila dollari), Editrice Sansoni di Firenze (un milione
e ottantamila dollari).
Le
seguenti altre industrie, nelle quali il Vaticano ha interessi
finanziari più o meno rilevanti, hanno chiuso negli ultimi anni in
pareggio o in passivo i loro bilanci: Società Santa Barbara
(capitale quattro milioni e ottocentomila dollari), Caffaro
Società per l'industria chimica ed elettronica (nove milioni e
seicentomila dollari), Salifera Siciliana (un milione e
centomila dollari), Società prodotti chimici superfosfati
(duecentoquarantacinquemila dollari), Bottonificio Fossanese
(quattrocentottantamila dollari), Saici Società agricola
industriale per la cellulosa italiana (ventiquattro milioni di
dollari), Cotonificio Veneziano (tre milioni e duecentomila
dollari), Lanificio di Gavardo (un milione e quattrocentomila
dollari), Fabbriche Formenti (possedeva un capitale di un
milione di dollari, che ha ridotto a un decimo), Molini Antonio
Biondi di Firenze (novecentosessantamila dollari), CIT
(ottocentomila dollari) e CIM (un milione e duecentomila
dollari).
Ciò
per quel che riguarda le imprese private. Si pone ora la domanda se
il Vaticano abbia degl'interessi anche nelle imprese statali. Nessuna
meraviglia che la risposta sia affermativa. Diamo un'occhiata a
questo fenomeno, che per la mentalità americana è abbastanza
abnorme, dello Stato che si mette a far concorrenza agli imprenditori
privati.
Negli
anni del dopoguerra il disordinato espandersi dell'economia italiana
corse più di una volta sul filo del rasoio. Emergendo dalla
catastrofica esperienza fascista, l'economia del Paese, grazie anche
ai massicci investimenti vaticani, passò dalla rovina più completa
al boom delle Vespe e poi delle Fiat. Nel decennio
1953-63 la produzione nazionale aumentò del 143 per cento,
raggiungendo un ammontare di oltre quarantacinque miliardi di
dollari. Nel 1967 il reddito nazionale era arrivato a sessantasei
miliardi di dollari, e per gli anni successivi erano previsti aumenti
costanti del 5,5 per cento. Per comprendere appieno fino a che punto
le ricchezze del Vaticano abbiano giovato all'economia italiana
bisogna esaminare la struttura e la funzione dell'”Istituto per la
Ricostruzione Industriale”. L'IRI è un organismo pubblico a cui il
governo italiano affida specifiche funzioni imprenditoriali. Esso
controlla centotrenta Società, seguendo in tutto e per tutto i
criteri con cui vengono amministrate le imprese private.
Quello
che rende l'IRI un organismo unico nel suo genere è il fatto ch'esso
mette sotto il controllo dello Stato un vasto complesso d'industrie,
comprendenti non soltanto radio e televisione, ferrovie, linee aeree
e marittime, ma anche industrie come quelle dell'acciaio, fabbriche
automobilistiche, Banche. L'IRI entra dunque in diretta concorrenza
con l'industria privata, e dà lavoro in pratica a centinaia di
migliaia di persone. Il tasso quotidiano dei suoi investimenti è di
tre milioni di dollari, la sua cifra annua d'affari di almeno tre
miliardi di dollari, il valore patrimoniale dei suoi complessi
industriali è di circa dodici miliardi di dollari. Creato nel 1933,
dopo che il crac di Wall Street del 1929 aveva prodotto anche in
Europa una reazione a catena, all'IRI vennero attribuiti due compiti
fondamentali: 1) dare ossigeno alle Banche italiane che vedendo in
pericolo le loro partecipazioni nelle industrie in difficoltà erano
impossibilitate a garantire i depositi dei loro clienti; 2) rimettere
in sesto l'industria italiana. Occorsero non meno di sette anni per
assolvere questo compito; ma alla fine il credito aveva ripreso
respiro e l'industria era rifiorita. Il Governo italiano riconsiderò
allora le possibilità dell'IRI, e constatando che il gigantesco
organismo controllato dallo Stato aveva rappresentato un esperimento
positivo riuscendo perfettamente, nelle più difficili condizioni, ad
adempiere le funzioni assegnategli, decise di farne un'istituzione
permanente.
Per
ogni lira che ricevono dallo Stato le imprese “irizzate” debbono
procurarsene altre dodici da privati. E poiché nessuna di queste
imprese sarebbe in grado di finanziarsi autonomamente coi propri
capitali, l'IRI lancia titoli sul libero mercato. Si calcola che non
meno di mezzo milione d'italiani abbia investito i propri risparmi in
titoli dell'IRI. Il maggior acquirente è stato il Vaticano. Non c'è
modo di conoscere l'entità degl'investimenti che i rappresentanti
del Vaticano hanno fatto nelle attività dell'IRI, ma si conoscono i
settori nei quali il Vaticano è intervenuto più massicciamente.
Bisogna precisare innanzi tutto che in nessuna delle Società
irizzate il Vaticano ha cercato di ottenere una partecipazione
maggioritaria, anche se in talune di esse ha il portafoglio più
consistente. Ma bisogna anche ricordare che, essendo la Democrazia
Cristiana al governo da più di venti anni, i capitali vaticani han
potuto agevolmente esser connessi alla maggior parte delle operazioni
economiche promosse dall'IRI.
Gli
avversari dell'IRI l'accusano di essere la palla al piede
dell'economia italiana. In realtà, costoro al di là dell'IRI
spianano le armi contro il Governo italiano e il Vaticano stesso. La
incertezza economica che ha caratterizzato la parte centrale degli
anni sessanta ha scoraggiato gl'investimenti privati, e in realtà
negli ultimi anni le aziende private non son riuscite che a trarre
modici guadagni dall'emissione di azioni. Oggi l'IRI e le altre
imprese controllate dallo Stato realizzano il quaranta per cento
degl'investimenti che si fanno in Italia. L'iniziativa privata è
amaramente consapevole di questa realtà. L'IRI in verità, ha sempre
sostenuto, spalleggiato dal Vaticano, di non aver mai ostacolato le
industrie private nell'intraprendere tutte le iniziative che
volessero, né sottraendo loro i capitali disponibili sul mercato né
in alcun modo. Il fatto è che spesso l'IRI mostra maggior
spregiudicatezza e determinazione di quanta ne abbia l'industria
privata.
Negli
ultimi anni l'IRI ha mostrato una certa tendenza a flirtare con
l'industria americana, e alcuni dei maggiori organismi economici
degli Stati Uniti oggi hanno partecipazioni in Società sussidiarie
dell'IRI. La U.S. Steel Corporation è proprietaria al 50 per
cento di due stabilimenti siderurgici dell'IRI; la Armco
International è anch'essa cointeressata per metà in un'altra
fabbrica di acciaio; la Raytheon e la Vitro Corporation
hanno una partecipazione in due delle più redditizie industrie
elettroniche dell'IRI. A sua volta, la Siderexport, Società
sussidiaria dell'IRI, partecipa al 50 per cento alla proprietà della
Dalminter di New York.
E'
a Bernardino Nogara che il Vaticano deve la sua solida posizione
nell'ambito dell'IRI. Egli previde che gli enormi investimenti fatti
nelle industrie statali sarebbero alla lunga risultati redditizi. Si
vuole che a stimolare Nogara a muoversi in quella direzione sia stata
la prima relazione fatta dal Governatore della Banca d'Italia dopo la
fine della guerra, nella quale si leggeva fra l'altro:”Per noi c'è
una svolta. Ci sono due strade: una ardua e faticosa, che porta
avanti, l'altra piatta e agevole, che conduce alla rovina.”
Nogara
fu chiaroveggente. Benché fosse devastato dalle spaventose
distruzioni che la guerra aveva inflitto alle fabbriche e a tutte le
installazioni industriali, il Paese avrebbe necessariamente scelto la
prima strada e avrebbe sollecitamente avviato la propria
ricostruzione. Quale miglior investimento, per i capitali vaticani,
del gruppo delle acciaierie statali Finsider? Anche se
gl'impianti erano andati in completa rovina, la Finsider
prometteva un sensazionale sviluppo una volta che si fosse dato avvio
al programma di ricostruzione.
All'inizio
del periodo postbellico la produzione annua di acciaio della Finsider
fu inferiore a un milione di tonnellate. Oggi ha più che decuplicato
quella cifra. Contribuendo in modo determinante a render l'Italia
autosufficiente per quanto riguarda il fabbisogno di ferro e di
acciaio, la Finsider è stata un fattore decisivo dello
sviluppo dell'economia e ne è diventata uno dei pilastri più
solidi. Ha circa settantaseimila dipendenti, una spesa annuale, per i
soli dipendenti, di duecentottantacinque milioni di dollari, e
raggiunge un netto utile di oltre ventiquattro milioni di dollari.
La
nascita della “Comunità Europea per il Carbonee l'Acciaio”
(CECA) diede un poderoso impulso allo sviluppo della Finsider.
Il Vaticano e il partito democratico cristiano intravidero subito i
vantaggi che potevano derivare dall'ingresso dell'Italia nel nuovo
organismo. Significava porre fine al protezionismo che aveva
caratterizzato per anni l'industria siderurgica italiana ed entrare
in concorrenza con i più grossi produttori del mondo intero. Oggi,
l'Italia occupa il settimo posto nella graduatoria del Paesi
produttori di acciaio.
La
potenza attuale della Finsider appare con chiarezza dalle sue
partecipazioni in compagnie sussidiarie. Essa possiede, per esempio,
il 51,6 per cento dell'Italsider, che produce ghisa di alto
forno, lingotti d'acciaio, profilati a caldo e a freddo, tubi
saldati; è anche azionista di maggioranza della Dalmine,
specializzata in lingotti d'acciaio e in tubi con saldature e senza.
La Terni appartiene quasi totalmente (novantasette per cento) alla
Finsider. La Terni produce lingotti, profilati a caldo e a
freddo, colate, fornaci. Almeno altre venti società, infine, che
svolgono attività nel settore, sono sotto controllo o hanno
importanti partecipazioni della Finsider.
Ma
il più grosso investimento del Vaticano in aziende IRI è
probabilmente quello riguardante l'Alfa Romeo, che con un
capitale di settantadue milioni di dollari e una produzione di poco
meno di centomila vetture l'anno è la seconda Casa automobilistica
italiana, e che per gl'inizi degli anni settanta ha programmato,
grazie soprattutto al nuovo complesso dell'Alfa Sud, costruito
nei pressi dei Napoli e costato cinquecento milioni di dollari, una
produzione annuale di più di duecentocinquantamila vetture.
Quello
dell'Alfa Sud è stato un motivo di contrasto fra la Fiat,
che controlla più del 75 per cento del mercato automobilistico
italiano, e l'IRI. Il presidente della Fiat, Gianni Agnelli,
se la prese col Governo italiano, con la Democrazia Cristiana e col
Vaticano, che congiuntamente cercano d'incoraggiare la costruzione di
nuovi impianti industriali nelle regioni economicamente più
depresse. La Fiat definì l'Alfa Sud “un errore
economico”. Piuttosto che creare un nuovo impianto automobilistico
a Napoli, sosteneva Agnelli, l'Alfa Romeo e i suoi patroni
(IRI e Vaticano) farebbero meglio ad associarsi alla Fiat per
realizzare un altro progetto, per esempio la creazione di
un'autentica industria aeronautica. La curva ascensionale del mercato
automobilistico in Europa, continuava Agnelli, ha già toccato il
massimo, e per gli anni settanta è anzi da prevedere un pericolo di
sovrapproduzione. Ma Agnelli perse la sua battaglia.
Benché
il principale investimento del Vaticano nelle aziende IRI sia
probabilmente quello dell'Alfa Romeo, considerevoli quantità
di danaro pontificio sono anche impegnate nella Finmeccanica,
una holding che coordina e finanzia le aziende IRI che lavorano nel
campo delle costruzioni meccaniche. Si tratta di trentacinque
aziende; in altre trentadue, che esercitano attività ausiliarie, la
Finmeccanica ha una partecipazione minoritaria. Il Vaticano ha
il controllo di alcune di queste Società.
Con
tutte le sue affiliate la Finmeccanica è la più grossa
concentrazione industriale che esista in Italia ed agisce
praticamente in tutti i settori dell'industria meccanica, dai motori
e macchie elettriche all'elettronica, dagli aerei alle locomotive,
dal materiale pesante agli strumenti di precisione, dagli apparecchi
da riscaldamento agli armamenti moderni (soprattutto carri armati e
tanks). Con l'ausilio degl'investimenti vaticani il gruppo
Finmeccanica ha compiuto considerevoli progressi dal 1959 ad
oggi, portando i suoi profitti da centottantacinque milioni e
seicentomila dollari a oltre quattrocentoventi milioni, e il valore
delle esportazioni da quarantun milioni e cento milioni di dollari.
Capitali
vaticani viaggiano anche con la Finmare, altra holding
dell'IRI che raggruppa la quattro maggiori Società italiane di
navigazione marittima (Italia, Lloyd Triestino, Adriatica e
Tirrenia). Ricca di un'antica tradizione marinara e fidando su un
vasto movimento turistico, l'Italia non ha mai sottovalutato
l'importanza della sua flotta; quella della Finmare trasporta
annualmente il 70 per cento dei passeggeri nazionali, è a secondo
posto nel mondo per numero di passaggi effettuati sulla rotta tra
l'Europa e l'America del Nord, e al primo posto per quel che riguarda
la rotta Europa-America del Sud. Il capitale della Finmare è
di ventotto milioni e ottocentomila dollari, le novanta navi, con una
stazza complessiva di oltre settecentomila tonnellate, trasportano
ogni anno circa due milioni di passeggeri e due milioni di tonnellate
di merci; i ricavi lordi si aggirano sui centocinquanta milioni di
dollari all'anno. Appartengono alla compagnia Italia (una
delle quattro della Finmare) i due lussuosi transatlantici
Raffaello e Michelangelo, di circa quarantaseimila
tonnellate ciascuno, impiegati sulla rotta nord-atlantica e alla cui
costruzione non furono certamente estranei importanti finanziamenti
vaticani.
Non
è facile accertare quale sia l'esatta estensione degl'investimenti e
del controllo del Vaticano nei confronti della principale compagnia
telefonica italiana, ma si può affermare tranquillamente che sono
considerevoli sia i primi che il secondo, e che all'influenza
vaticana si deve se la STET è un organismo solido e, dal
punto di vista economico, di tutto rispetto. Nell'assemblea degli
azionisti del luglio 1968 fu comunicato che gli utili netti erano
stati, per il secondo anno consecutivo, di venti milioni di dollari.
Il suo capitale, recentemente aumentato di sedici milioni, è
attualmente di trecentoquattro milioni di dollari. Gli utenti sono
sei milioni (il doppio che nel '58), i dipendenti cinquantottomila.
Per il 1970 erano previsti investimenti per un totale di
millecentoventi milioni di dollari per nuove apparecchiature e
allacciamenti, e un aumento del personale di diecimila unità.
La
STET si è anche lanciata alla conquista di altre compagnie:
di alcune di esse è addirittura l'unica proprietaria. Se infatti
nella SIP (“Società italiana per l'esercizio telefonico”)
ha una maggioranza del solo 53 per cento, e nell'Italcable del
60 per cento, nella Società italiana telecomunicazioni Siemens
possiede il 98 per cento delle azioni, e nella SETA (“Società
Esercizi Telefonici Ausiliari”) e nella Fonit-Cetra (dischi)
il 99,99 per cento. Il 100 per cento delle carature le appartengono
per la SAIAT (“Società Attività Immobiliari Ausiliarie
Telefoniche”), per il CSELT (“Centro Studi e Laboratori
per le Telecomunicazioni”), per la SAGAS (“Società per
Azioni Grandi Alberghi e Stazioni climatiche”) e per la SEAT
(“Società Elenchi ufficiali degli Abbonati al Telefono”).
Partecipazioni di minoranza ha invece in altre Società: nella RAI
il 22,9 per cento, in Telespazio e nella GEMINA
(“Geomineraria Nazionale”) un terzo esatto, nella
Ates-Componenti elettronici il 20 per cento, nella SIRTI
(“Società Italiana Reti Telefoniche Interurbane”) il 10, nella
SIEO (“Società Imprese Elettriche d'Oltremare”) l'11,09,
nella SAGAT (“Società Azionaria Gestione Aeroporto di
Torino”) il 4,5 per cento.
Altro
campo d'azione del Vaticano è il settore bancario. Tre dei maggiori
istituti del Paese, la Banca Commerciale Italiana, il Credito
Italiano e il Banco di Roma, pur appartenendo al gruppo
IRI, sono strettamente legati alla Santa Sede. Assieme all'istituto
direttamente gestito dal Vaticano, il Banco di Santo Spirito,
raccolgono un quinto degl'interi depositi bancari, hanno finanziato
il 50 per cento dei contratti commerciali con l'estero e collocato
due terzi di nuove emissioni azionarie e obbligazionarie sul mercato
borsistico italiano.
Pochi
anni fa le tre Banche hanno raddoppiato i loro capitali sociali
emettendo nuove azioni al fine di conseguire un miglior equilibrio
tra le proprie risorse e i depositi. Il capitale della Commerciale
passò da trentadue a sessantaquattro milioni di dollari, quello del
Credito Italiano da ventiquattro a quarantotto, quello del
Banco di Roma da venti a quaranta.
Nel
giro di pochi anni i depositi e i conti correnti istituiti dalla
clientela dei tre istituti hanno raggiunto un importo complessivo di
oltre sei miliardi di dollari, che costituisce appunto il 20 per
cento circa dei depositi bancari italiani.
Quanto
al Banco di Santo Spirito, fondato da Paolo V nel 1605, si
tratta di uno dei più antichi istituti di credito del mondo, ed è
fornito di un capitale sociale di dodici milioni e ottocentomila
dollari. I risparmi accumulati nelle sue casse son saliti tra il 1966
e il 1967 da seicentosessantasette a settecentoventinove milioni di
dollari, il profitto netto ha superato la quota di un milione e
duecentoquarantamila dollari.
Le
quattro Banche su menzionate hanno sede a Roma; ma l'autentica forza
bancaria del Vaticano risiede nell'Italia settentrionale, dove la
Banche ch'esso controlla, soprattutto in Lombardia, nel Veneto e in
Emilia, sono, se possibile, ancor più floride delle “quattro
grandi” romane. Capofila di queste Banche del Nord è il Banco
Ambrosiano, fondato nel 1896, il quale, con un capitale di 6
milioni e duecentoquarantamila dollari, ha registrato per due anni
consecutivi, 1966 e 1967, un utile netto di un milione e
quattrocentomila dollari, e ha pagato un dividendo di duecentoventi
lire a tre milioni di azioni, per un totale di circa un milione e
cinquantaseimila dollari.
Anni
fa il Banco Ambrosiano acquisì delle partecipazioni in tre
istituti finanziari stranieri: la Banca del Gottardo di Lugano
e due Banche lussemburghesi, la Kredietbank e l'Interitalia.
Nell'attesa che il Parlamento italiano approvasse la legge per
l'istituzione dei fondi d'investimento italiani (legge che da tempo
il Governo aveva predisposto) le Banche su menzionate, tutte
controllate dal Vaticano, crearono un servizio che consentiva
agl'italiani di acquistare quote di fondi esteri. Alla fine del 1967
detti investimenti fatti attraverso gl'istituti creditizi di oltre
frontiera ammontavano a ben quattro milioni e mezzo di dollari. Più
recentemente altre due organizzazioni bancarie legate al Vaticano, La
Centrale e la Banca Provinciale Lombarda, han deciso di
dedicarsi al lucroso affare di acquistare quote di fondi di
investimento stranieri sui mercati svizzero e lussemburghese. La
Banca Provinciale Lombarda si è anzi associata alla Dutch
Robeco e alla German Concentra, imprese d'investimenti
finanziari, per rendere più agevole ai risparmiatori italiani
l'acquisto delle quote di fondi stranieri. E questa profittevole
attività di Società bancarie straniere o imprese d'investimenti
legate al Vaticano ha continuato a svolgersi sul mercato finché il
Parlamento italiano non ha votato la legge sui fondi comuni
d'investimento.
Gli
affari delle Banche dell'Italia settentrionale legate al Vaticano
sono diventati così intricati che è praticamente impossibile
seguirne tutte le ramificazioni. Per ottenere un minimo di chiarezza
escluderemo tutte quelle Banche che abbiano un capitale inferiore a
ottantamila dollari, e divideremo le altre in tre categorie. Nella
prima, troviamo sette grosse Banche gestite direttamente dal
Vaticano: Banco Ambrosiano di
Milano, Banca Provinciale Lombarda, Piccolo Credito
Bergamasco, Credito Romagnolo, Banca Cattolica del Veneto, Banco di
San Geminiano e San Prospero, Banca di San Paolo. Nella seconda
categoria, vi sono tredici Banche alle quali la Chiesa è fortemente
interessata pur senza averne il controllo diretto: Banca Nazionale
dell'Agricoltura, Banca di Credito e Risparmio di Roma, Banca
Popolare di Bergamo, Banca Piemonte di Torino, Banca del Fucino di
Roma, Banca Romana, Banca Torinese Balbis e Guglielmone, Banca dei
Comuni Vesuviani, Istituto Bancario Romano, Banca di Trento e
Bolzano, Credito Mobiliare Fiorentino, Banca del Sud, Credito
Commerciale di Cremona. Alla terza categoria appartengono
sessantadue Banche nelle quali il Vaticano, pur avendo solo una
piccola quota d'interesse, ha piazzato uno o più dei suoi uomini nei
consigli di amministrazione o nei posti direttivi. Tra le più
importanti di questo gruppo si annoverano la Banca Popolare
Cooperativa di Novara, il Credito Varesino, il Credito di Venezia e
del Rio de la Plata, la Banca Agricola Milanese, la Banca Emiliana,
la Banca di Chiavari e della Riviera Ligure, il Credito Bresciano e
la Banca Popolare di Verona.
C'è
infine da osservare che migliaia di piccolissime Banche rurali sparse
in tutta Italia appartengono al cento per cento al Vaticano oppure
alle locali chiese parrocchiali, su cui il Vaticano esercita un
costante controllo inviando periodicamente dei finanzieri. La maggior
parte di queste piccole banche si trovano nell'Italia meridionale o
in Sicilia e Sardegna. Per quel che se ne sa, in queste regioni il
Vaticano controlla soltanto due grandi banche: il Banco di Napoli
e il Banco di Sicilia.
Nel
corso del 1967 otto Banche acquistate dalla Italmobiliare, un
istituto finanziario di proprietà della Italcementi, si
fusero per dar vita a un nuovo “Istituto Bancario Italiano”
(IBI). L'Italmobiliare, che possiede riserve per più
di nove milioni di dollari e ha dichiarato per il 1967-68 un profitto
di seicentoquarantaduemila dollari, è diretta da Carlo Pesenti, che
è ritenuto da molti il più abile banchiere italiano e che è
certamente uno dei più sicuri paladini degl'interessi vaticani in
questo campo. Pesenti, che è anche direttore generale
dell'Italcementi, acquisì le otto Banche una per volta nello spazio
di cinque anni. Pesenti fu il protagonista di quella che viene
considerata una delle più brillanti operazioni finanziarie nella
storia economica del dopoguerra italiano: agendo pressoché da solo,
egli creò l'Istituto Bancario Italiano facendo incorporare
dal Credito di Venezia e del Rio de la Plata (di cui era
proprietario e il cui capitale è di quattro milioni e ottocentomila
dollari) altre sette Banche: la Balbis e Guglielmone (capitale
due milioni e quattrocentomila dollari), la Banca di Credito e
Risparmio di Roma (due milioni e quattrocentomila dollari,
l'Istituto Bancario Romano (ottocentomila dollari), la Banca
di Credito Genovese (un milione e centoventimila dollari), la
Banca Romana (due milioni e quattrocentomila dollari), il
Credito Mobiliare Fiorentino (un milione e centoventimila
dollari) e la Banca Naef-Ferrazzi-Longhi di La Spezia
(seicentoquarantamila dollari). Piazzandosi immediatamente tra i
primi venti istituti bancari italiani, grazie all'entità dei
depositi che complessivamente superavano i cinquecentododici milioni
di dollari e a un ammontare di capitale e di circa ventidue milioni
di dollari, il nuovo IBI conseguì nel suo primo anno di vita
(1967) un risultato di tutto rilievo per una creatura appena nata,
con un profitto netto di ottocentomila dollari.
Presidente
del nuovo gruppo bancario è lo stesso Pesenti (il quale tra l'altro
controlla altri due importanti istituti bancari: la Banca
Provinciale Lombarda e il Credito Commerciale di Cremona);
vicepresidente è Massimo Spada. La fondazione dell'IBI non è
che la prima di una complessa serie di fusioni bancarie progettate
dal Vaticano. La successiva riguarda appunto le due Banche di
Pesenti, la Provinciale Lombarda e il Credito Commerciale
di Cremona; ne risulta la creazione di una combinazione bancaria
che può contare su milleduecentottanta milioni di dollari di
depositi, presentandosi come la più grande concentrazione di Banche
private che esista non soltanto in Italia, ma in buona parte
dell'intera Europa, Svizzera compresa.
Ma
non si creda che l'attività bancaria del Vaticano si limiti
all'Italia. Fondi gestiti dalla Prefettura per gli affari economici
sono depositati in numerose Banche non italiane, in parte in America
e in gran parte in Svizzera, dove sono accreditati su conti cifrati.
Nessuno sa esattamente quanto danaro vaticano giaccia nei forzieri
svizzeri, ma è evidente che la preferenza della Santa Sede per le
banche svizzere è dovuta alle garanzie che la moneta di quel Paese
offre contro ogni pericolo d'inflazione e di svalutazione. A partire
dal 1945 si sono avute in tutto il mondo più di centosettanta
svalutazioni, dodici delle quali nel solo Brasile. A differenza del
dollaro americano e della sterlina britannica le cui riserve auree in
realtà non superano il cinquanta per cento del circolante, il franco
svizzero è garantito dall'oro al centotrenta per cento. In
considerazione, dunque, di questa straordinaria solidità della
moneta svizzera, il Vaticano fa incetta di franchi e li cambia in
monete di altro tipo quando ne ha bisogno.
I
depositi svizzeri permettono anche al Vaticano di conservare
l'anonimato quando acquista il controllo di una Società straniera. A
differenza di quelle americane, le Banche svizzere si prestano a far
da intermediarie acquistando azioni per conto di clienti, ma non
sotto il loro nome. Il Vaticano, così come fanno altri clienti, può
far acquistare titoli di una determinata Società da una Banca
svizzera e a nome di questa, riuscendo così a ottenere il controllo
di una impresa senza che nulla trapeli. Gli "Gnomi di Zurigo",
come gl'inglesi definiscono gli operatori bancari svizzeri,
sostengono tuttavia che la percentuale delle azioni che le loro
Banche detengono in Società nord-americane non supera l'uno per
cento dell'intero mercato americano. Qualsiasi congettura sull'entità
dei capitali che il Vaticano può aver investito silenziosamente
nell'economia statunitense, per lo meno nel settore dei titoli
azionari, deve dunque tener conto di detta cifra.
Considerando
che le operazioni bancarie elvetiche sono fondate sulla segretezza
(uno stile a cui non sono certo insensibili i finanzieri vaticani),
il Vaticano e l'IRI, in qualità di azionisti di maggioranza,
governano il Banque de Rome Suisse, filiazione elvetica del
Banco di Roma. Ha un capitale di quindici milioni e
duecentomila dollari e, essendo soggetta alle leggi svizzere, tiene i
nomi dei suoi depositanti avvolti nel più impenetrabile silenzio.
Un
aspetto significativo della ben calcolata articolazione dei programmi
finanziari del Vaticano è quello offerto dalle attività, assai
discrete, peraltro, dei suoi vari istituti di credito. Molto tempo e
spazio occorrerebbero per fissare in modo esauriente il ruolo giocato
dagl'investimenti vaticani nell'attività creditizia italiana; ma si
può calcolare che su circa centottanta istituti di credito a medio e
lungo termine operanti in Italia, almeno un terzo sono alimentati da
capitali del Vaticano.
Bisogna
ricordare che i prestiti a lungo termine sono un fattore essenziale
per la realizzazione dei programmi di espansione, e che da questo
punto di vista i fondi vaticani han fatto molto per sostenere le
imprese di piccolo e medio calibro, alle quali risultava
particolarmente arduo procurarsi liquidi sul mercato dei capitali, e
pertanto han contribuito in misura rilevante a determinare un
crescita equilibrata dell'economia italiana nel dopoguerra. In questa
prospettiva due aspetti appaiono particolarmente importanti e
meritano di essere sottolineati: l'apporto finanziario degl'istituti
di credito vaticani si è andato estendendo, soprattutto negli ultimi
anni, al processo d'industrializzazione delle zone depresse
meridionali; l'appoggio fornito dall'economia vaticana agevola la
politica dell'industria italiana di penetrazione nei mercati esteri.
Gl'istituti
di credito a medio e lungo termine rivolgono la loro attenzione a
determinati settori dell'economia, concedendo finanziamenti, per
esempio, all'industria, ai servizi pubblici, alle Società edilizie,
all'industria cinematografica. Alcuni agiscono su scala nazionale,
mentre altri si limitano a un'attività regionale; alcuni praticano
indifferentemente il credito a medio o a lungo termine, mentre altri
si specializzano nel medio termine. Assieme alle Banche, questi
istituti costituiscono le principali fonti di capitali freschi e
forniscono in forma massiccia i mutui o il liquido per l'acquisizione
di titoli.
Fra
questi istituti finanziari uno dei più importanti è la Centrale,
di cui s'ignora in che misura sia legata al Vaticano, mentre se ne
conoscono gli stretti vincoli con la Pirelli, che praticamente
la controlla. Ma l'influenza del Vaticano, anche se sfugge a un
concreto controllo, è comunemente data per scontata negli ambienti
finanziari italiani.
L'area
in cui la Centrale preferiva muoversi fino a qualche anno fa
era quella dell'industria elettrica, ma dopo la nazionalizzazione di
questo settore, attuata dal Governo, essa si è inserita con successo
in altri settori come l'agricoltura, l'industria mineraria e quella
meccanica, sia in Italia che all'estero. Il suo capitale ammonta oggi
a oltre centosette milioni di dollari e le sue liquidità a poco meno
di duecentosettantasette milioni di dollari, di cui centosedici
investiti in azioni di circa cinquantacinque Società e non meno di
sessanta dati in prestito alle medesime. In più è stato fatto
credito di centocinquantasei milioni di dollari alla ENEL, che
è la compagnia elettrica nazionalizzata. L'anno finanziario 1967 si
è chiuso per la Centrale con un profitto netto di oltre
sedici milioni e mezzo di dollari.
In
quello stesso anno la Centrale ha assorbito la Romana
Finanziaria Sifir, di proprietà del Vaticano, che ha portato un
capitale di settantadue milioni di dollari e una liquidità di
centosessantotto milioni di dollari (di cui diciotto milioni circa
investiti in azioni di altre trentasei Società e più di ventidue
milioni impegnati in crediti, oltre a un prestito speciale all'ENEL
di settanta milioni e quattrocentomila dollari).
Un
istituto creditizio di cui il Vaticano ha la proprietà completa e
assoluta è la Società Finanziaria Industria e Commercio con
quattrocentottantamila dollari di capitale. Altri istituti analoghi
di cui la Santa Sede ha la proprietà o il controllo parziale sono:
la Società Capitolina Finanziaria (quattrocentomila dollari
di capitale), il Credito Fondiario (sedici milioni di
dollari), la Società Mineraria del Predil
(trecentottataquattromila dollari), la Società Finanziaria Italiana
di Milano (quattrocentomila dollari), la Fiscambi di Roma e di
Milano (un milione e seicentomila dollari), la Efibanca –
Ente Finanziario Interbancario (capitale sedici milioni di
dollari) e la Sind di Milano (capitale un milione e
seicentomila dollari).
Alcune
compagnie di assicurazione sono di proprietà del Vaticano; altre
sono soltanto controllate da finanzieri apostolici. Nel primo gruppo
rientrano due fra le più grosse compagnie italiane: le Assicurazioni
Generali di Venezia e Trieste, con un capitale sociale di
ventitré milioni e duecentomila dollari e un profitto, per il 1967.
di oltre quattro milioni e seicentosettantamila dollari, e la
Riunione Adriatica di Sicurtà, con un capitale di sei milioni
e novecentomila dollari e un profitto di un milione e
duecentosettantamila dollari. Strette da forti vincoli con la Banca
Commerciale (a sua volta sotto controllo vaticano), le Generali
hanno un ricco portafoglio di azioni della Montecatini-Edison,
la quale dal canto suo possiede un portafoglio non meno ricco di
titoli delle Generali.
Similmente,
la Adriatica di Sicurtà è legata al Credito Italiano
(del quale il Vaticano è magna pars), intrattiene rapporti
finanziari con gl'istituti di credito La Centrale e Bastogi,
entrambi sotto l'influenza vaticana, e lavora in stretta connessione
con l'Italcementi.
In
violazione delle leggi italiane, che vietano ai membri del Parlamento
di avere rapporti di affari con imprese commerciali, quattro senatori
(tutti democristiani), uno dei quali fu più volte ministro, sono nel
consiglio di amministrazione delle Assicurazioni Generali. Per
nulla turbate da questa incompatibilità, le Generali hanno
condotto tranquillamente i loro affari, traendone eccellenti
profitti. Assieme alla Riunione Adriatica di Sicurtà le
Assicurazioni Generali hanno, nel corso degli anni, largamente
profittato di opulenti contratti di assicurazione stipulati con
Società statali operanti in territori stranieri (assicurazioni
contro i danni di possibili bombardamenti nucleari, contro le perdite
dovute a nazionalizzazione e confische operate dai governi locali),
così come hanno beneficiato di vari contratti assicurativi ottenuti
con clienti stranieri grazie alla stretta cooperazione di organismi
statali. In tal modo le due compagnie, mostrando di non formalizzarsi
troppo per il fatto di avere alcuni esponenti del Parlamento a
rappresentare i loro privati interessi, sono gradualmente diventate
le due massime compagnie assicuratrici d'Italia. Ecco un elenco di
altre Società di assicurazione che hanno rapporti più o meno
stretti con il Vaticano: Compagnia di Roma, conosciuta anche
come Riassicurazioni e Partecipazioni Assicurative (capitale
novecentosessantamila dollari), Unione Italiana di Riassicurazione
(novecentosessantamila dollari), Le Assicurazioni d'Italia (due
milioni di dollari), Finmeter (un milione e seicentottantamila
dollari), Compagnia Tirrena di Capitalizzazioni e Assicurazioni
(due milioni e quattrocentomila dollari), Unione Finanziaria
Italiana (seicentoquarantamila dollari), Finanziaria Tirrena
(centosessantamila dollari), Lloyd Internazionale
(ottocentomila dollari), Fata (“Fondo Assicurativo tra
Agricoltori”; un milione e duecentomila dollari).
Le
informazioni fornite in questo capitolo danno un'idea vertiginosa
della posizione che gli uomini del Vaticano hanno saputo creare alla
loro “ditta” nel mondo dei grandi affari.
Non
è cosa da poco. Dopo anni di riflessione è stato deciso che
l'accumulazione di ricchezza non è più peccaminosa e riprovevole di
quanto lo sia far collezione di monete. Certo, il Vaticano continua
ad perpetuum a fare la carità, ma è altrettanto certo
che non la pratica più. Il Vaticano sembra non aderire alla
tesi secondo cui l'arricchimento di un uomo significa l'impoverimento
di un altro. E' anche vero che, da un certo punto di vista, la corsa
all'arricchimento del Vaticano è risultata particolarmente benefica
per l'Italia. Ha avviato il progresso del Paese consentendogli di
riprendersi dallo stato di prostrazione in cui l'aveva lasciato la
guerra (voluta dal Vaticano e dai gesuiti, nota di NWO-TR); ha
fornito capitali per gli investimenti, ha generato un benessere di
cui ciascuno in qualche misura ha goduto. In una società libera, che
ha bisogno di concentrazioni di ricchezza privata per
controbilanciare il potere dello Stato, il Vaticano (che non persegue
più miraggi di ingrandimenti territoriali) si è convertito alle
teorie capitalistiche e ha fornito un autorevole esempio a coloro che
credono nel danaro e sacrificano sull'altare dei grandi affari. I
Palazzi Apostolici e Wall Street cantano all'unisono.
Grazie
alla segretezza con cui sono svolte le complesse operazioni
finanziarie della Chiesa, l'immagine che la gente ha del Vaticano è
ancora quella di un'ente ecclesiastico. Spesso l'apprendere che la
Chiesa non è altro che un grosso organismo affaristico dà fastidio,
a torto, alla gente. Un giornalista americano che è stato per anni
corrispondente da Roma, Barrett MacGurn, raccontava dello stupore del
Segretario per il lavoro degli Stati Uniti, James Mitchell, da lui
intervistato subito dopo una visita a Pio XII. “Il Papa sa tutto
sull'Organizzazione Internazionale del Lavoro”, esclamava Mitchell,
“ed era già informato che la recessione degli Stati Uniti è stata
superata. Ma se noi stessi lo abbiamo appena saputo!”.
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