venerdì 8 gennaio 2010

Il Governo Mondiale di Pino Arlacchi

Dedico questo post a Pino Arlacchi e alla sua tesi di Governo Mondiale esposta nell'articolo "Il Governo Mondiale, l'Europa e il declino degli Stati Uniti".
Arlacchi dal luglio 2009 è europarlamentare, eletto nelle fila di Italia dei Valori con oltre 20mila voti di preferenza. E' stato Vice-Presidente della Commissione bicamerale antimafia.
Dal 1997 al 2002 è stato Vice-Segretario Generale dell’ONU e Direttore Esecutivo del Programma per il controllo delle droghe con sede a Vienna. E' professore ordinario di sociologia all’Università di Sassari. Ha insegnato alla Columbia University di New York ed all’Università della Calabria e di Firenze.
Questo articolo di Pino Arlacchi dimostra che all'interno delle sfere ufficiali l'ipotesi di un Governo Mondiale è presa molto sul serio.
L'articolo è molto esplicino e articolato; salta subito all'occhio il fatto che per farci accettare il Governo Mondiale, la propaganda ufficiale di Arlacchi, ce lo pone come una cosa bella e desiderabile, una favola intrisa di idealismo, un traguardo ambito, raggiunto il quale supereremo molti, se non tutti i problemi dell'umanità. Arlacchi dice: "Dobbiamo però avere il coraggio delle grandi idee". Di grandi idee sicuramente di tratta ma il problema è vedere a vantaggio di chi.
Esplicita la frase di Arlacchi che dice: "Quanti sanno che l’architettura stessa dell’ONU - con la sua Costituzione, la sua Assemblea, il suo Gabinetto di Governo e la sua Corte Costituzionale - fu concepita avendo in mente non solo le istituzioni americane ma un’idea, il governo mondiale, che tra il 1945 e l’inizio degli anni ’50 era condivisa da milioni di persone e da alcune delle maggiori menti dell’epoca come Bertrand Russell e Albert Einstein?"
Arlacchi, ricordiamolo, non è un teorico della cospirazione; se qualsiasi altro ricercatore o giornalista indipendente avesse detto cose del genere sarebbe stato subito accusato di "complottismo".
Una delle frasi più inquietanti è questa:
"La maggior parte degli esperti di relazioni internazionali concordano sul fatto che il più grande ostacolo all’eliminazione dei conflitti internazionali è l’assenza di una autorità legittima centrale capace di imporre regole contro la guerra. E questa capacità, aggiunge chi scrive, deve essere resa indipendente dal progresso etico, il cui sviluppo non è lineare e può conoscere lunghi periodi di arretramento.
Abbiamo bisogno di un centro universale della coercizione legittima in grado, per il fatto stesso di esistere, di proibire il ricorso alla violenza “privata” (cioè all’aggressione tra stati e alla guerra) e i intervenire a difesa dei diritti umani fondamentali.
"
Arlacchi ci spaccia le sue soluzioni come quelle che ci daranno un mondo migliore ma in pratica il monopolio centralizzato della coercizione significa la creazione di un esercito mondiale, che si opporrà a tutti gli stati o regioni reputate "violente" per qualsiasi ragione.
Ricordiamo a questo proposito come sono state inventate ad arte le prove sulle presunte armi di distruzione di massa irachene per giustificare l'intervento statunitense. Arlacchi dice:"Gli europei hanno visto sempre più l’America di Clinton e poi di Bush preoccupata di crearsi nemici da combattere con l’uso della forza: stati delinquenti e gruppi terroristici sempre all’opera in complotti anti-occidentali e sempre in procinto di procurarsi armi di distruzione di massa".
Però ci chiediamo: non sarà anche possibile che un domani, un qualsiasi paese disobbediente allo sfruttamento da parte di una ricca elite internazionalista riunita in un Governo Mondiale, possa essere attaccato attraverso un unico esercito mondiale? L'invasione potrà poi essere giustificata all'opinione pubblica Mondiale come un'Operazione di Pace, in perfetto stile Orwelliano; operazione che verrebbe spacciata come l'opera dei "Buoni" contro i "Cattivi" paesi che sostegno un fantomatico terrorismo internazionale o possiedono diaboliche armi di distruzione di massa da usare contro il Governo Mondiale.
Il Governo delle finte Democrazie Occidentali ha avuto in fondo sempre questo scopo: garantire profitti e potere ad una ricca elite nazionale, fare qualche elemosia alle masse di schiavi lavoratori in cambio della pace sociale e reprimere i dissidenti attraverso il monopolio della coercizione (il)legittima.
Questo sarà il vero volto del Governo Mondiale, al di la delle belle parole di Arlacchi per farcelo desiderare: il potere e i soldi per un'elite sovranazionale, e la schiavitu per tutti gli altri.
Per approfondire i piani dell'ONU consiglio questo forum del sito Luogocomune.net:
Verso il Governo Mondiale, il volto oscuro delle Nazioni Unite.

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Il Governo Mondiale, l'Europa e il declino degli Stati Uniti  

UNA SINTESI DELLA MIA VISIONE DI POLITICA ESTERA.
di Pino Arlacchi
26 agosto 2009

Governo Mondiale e proibizione della guerra
Non siamo in pochi a ritenere che tra le cause principali della guerra e della violenza di maggiori dimensioni che affliggono il mondo attuale ci sia la mancanza di un monopolio centrale della forza. Cioè di una autorità al di sopra dei singoli stati in grado di far rispettare la proibizione del genocidio e della guerra.
Quanto è realistica, allora, l’idea del governo mondiale? Vale la pena di riprendere questo concetto? E come andrebbe riproposto? Sotto forma di un processo di crescita del mandato dell’ONU, oppure secondo percorsi interamente nuovi?

La proposta del governo mondiale è più realistica di quanto sembri. Ed è più attuabile di quella della riforma dell’ONU a piccoli passi. Siamo alla fine dell’epoca post- 11 settembre, e l’Europa e la Cina si delineano sempre più nitidamente come poli alternativi all’egemonia USA. Entrambe vedono in una ONU opportunamente trasformata la sede più consona per lo sviluppo della pace globale.
Dobbiamo però avere il coraggio delle grandi idee, e dobbiamo perciò tornare indietro. Sì. Indietro. Perché ci sono stati dei momenti, nel recente passato, nei quali gli orizzonti del cambiamento erano più vasti, e si volava molto più alto nei progetti sull’ordine internazionale. Gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, per esempio, sono stati uno di questi momenti. Fu una stagione breve, terminata con il sorgere della guerra fredda, ma ricca non solo di idee audaci ma anche di concreti tentativi di attuarle.
Uno dei risultati più deleteri del catastrofismo oggi dominante sul futuro delle relazioni internazionali è la riduzione della scala delle proposte di cambiamento. Anche le proposte dei movimenti new global, a ben guardare, sono concezioni di riforma su singoli problemi, spesso slegate tra loro e ciascuna con una sua constituency separata. I progetti di nuove architetture globali sono oggi dominati da un modo di pensare minimalista, frutto delle disillusioni degli ultimi decenni.
Ma negli anni immediatamente successivi al 1945 la piattaforma su cui le proposte di cambiamento si elevavano era più alta. La questione dell’ordine internazionale era posta nei termini di un vero e proprio governo del mondo, e le Nazioni Unite e le istituzioni di Bretton Woods erano parte di un sistema ancora più ampio di riferimento. La pace e la sicurezza erano obiettivi strategici, ma non venivano trascurati gli obiettivi economici e sociali. Oggi può sembrare un eresia, ma il pieno impiego era considerato tra i diritti fondamentali, e come un obiettivo da perseguire in ogni parte del sistema internazionale.
Non si trattò di un ondata di demagogia e di radicalismo irrazionale. I fondatori dell’architettura globale del dopoguerra avevano in mente degli scopi molto precisi, perché erano passati attraverso terribili esperienze. Nell’avanzare piani anche molto arditi, non si domandavano quanto tasso di socialismo o di liberismo questi contenessero, ma di quanto essi li proteggessero dalla triade sciagurata della crisi economica, del fascismo e della guerra.
Non è difficile comprendere le ragioni di questo atteggiamento. La storia aveva appena dato loro una durissima lezione sul prezzo dell’assenza di una governance globale. La crescita economica e la relativa pace dell’ottocento erano terminate nelle tragedie del fascismo, dello stalinismo e delle due guerre mondiali. La catastrofe era stata determinata dallo smantellamento delle regolazioni economiche e del mercato del lavoro, ed era culminata con il collasso dell’economia mondiale negli anni trenta del novecento.
Il trionfo delle forze di mercato senza che vi fosse alcun tentativo di proteggere la società aveva sparso insicurezza e disoccupazione tra i lavoratori, rendendoli facile preda delle forze politiche più estreme. Gli esseri umani non sono delle merci, e non possono essere trattati come delle merci senza mettere a repentaglio l’intero ordine sociale. I mercati sono il contrario di quanto pensava Adam Smith. Sono dei meccanismi profondamente innaturali, e senza delle potenti salvaguardie sociali, sono in grado di distruggere qualsiasi società: «Permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale – ci ha ammonito Polanyi - porterebbe alla distruzione della società».
La grande trasformazione di Polanyi vide la luce nel 1944, l’anno nel quale si tenne la conferenza di Bretton Woods con lo scopo di ricostruire l’economia mondiale in modo da evitare un altro disastro. E fu l’interpretazione di Polanyi della reazione alla globalizzazione dell’ottocento che ispirò i dirigenti politici del dopoguerra. Essi volevano creare un economia internazionale a guida americana che permettesse l’espansione finanziaria, industriale e commerciale del pianeta dentro una cornice istituzionale capace di proteggere il benessere dei cittadini dalle defaillances del mercato. Ed erano anche acutamente consapevoli della connessione tra guerra e depressione economica.
La crescita economica successiva alla seconda guerra mondiale non fu, perciò, il risultato di una incontrollata libertà di mercato, ma il prodotto di una serie di decisioni politiche lungimiranti prese all’indomani della guerra dai leader occidentali. Gli interessi degli Stati Uniti dominarono l’intrapresa da cima a fondo, ma molti non vedevano allora una contraddizione tra questi e gli interessi del mondo occidentale. L’idea rooseveltiana degli USA come governo mondiale attraeva la maggior parte dei gruppi dirigenti del “mondo libero”, e nei primi tempi esercitò anche una forte attrazione sulla Russia di Stalin e sulla galassia dei paesi poveri.
Nel campo dell’economia, l’influenza di Keynes era molto forte. Quanta gente oggi ricorda o sa che il Fondo Monetario Internazionale – prima di essere degradato ad una estensione del Tesoro americano e prima di diventare un medico che conosce una sola terapia (disastrosa) per tutti i mali – fu una sua creatura, concepita per essere la Banca Centrale Mondiale avente in carico la stabilità finanziaria universale? Il Fondo doveva essere dotato di una sua moneta di riserva, il Bancor, con un accesso a risorse pari alla metà della importazioni mondiali, mentre il Fondo non ha mai controllato una liquidità superiore al 3% delle stesse.
Quanti sanno che l’architettura stessa dell’ONU - con la sua Costituzione, la sua Assemblea, il suo Gabinetto di Governo e la sua Corte Costituzionale - fu concepita avendo in mente non solo le istituzioni americane ma un’idea, il governo mondiale, che tra il 1945 e l’inizio degli anni ’50 era condivisa da milioni di persone e da alcune delle maggiori menti dell’epoca come Bertrand Russell e Albert Einstein?
Nonostante siano trascorsi più di sessanta anni da allora, viviamo in un epoca nella quale alcune delle basi della sicurezza mondiale non sono cambiate, ed è per questo che occorre ritornare a quel tipo di fervore intellettuale e politico. Il problema delle armi atomiche è sempre lì, con il suo corredo di questioni legate alla proliferazione. L’instabilità dei mercati è diventata ancora più minacciosa per via della loro espansione globale, ed essi hanno un bisogno ancora più acuto di regole ed istituzioni capaci di farli funzionare senza danni. Al centro della crisi finanziaria internazionale che stiamo attraversando c’è il fatto che abbiamo mercati finanziari globali senza avere alcun sistema globale di regolazione degli stessi.
Le minacce militari alla sicurezza umana sono molto diminuite rispetto ad allora, ma abbiamo bisogno di fare finalmente il salto di qualità verso la proibizione formale della guerra e verso il monopolio centrale della forza. In questo modo disporremo di maggiori energie e risorse per affrontare le sfide interamente nuove, sconosciute nel 1945, come quella della sicurezza ambientale.
Il punto centrale è politico e non è eludibile. Il bisogno di un nuovo sistema di governance non può essere soddisfatto lasciando, per così dire, libero sfogo alla creatività della società civile internazionale. Non è sufficiente che mille associazioni spontanee fioriscano e ci portino per mano nella direzione giusta. Non sarà la moltiplicazione delle NGOs che ci condurrà ad un assetto superiore della pace e della sicurezza.
Per raggiungere questo scopo è necessaria una architettura istituzionale dai contorni definiti, con regole precise e meccanismi decisionali appropriati. Una nuova governance globale non si crea prescindendo dal contesto delle organizzazioni internazionali già esistenti. Sono queste il campo di battaglia cruciale. Pieno di ambiguità e di ostacoli, ma ineludibile. La difficoltà consiste nel fatto che le istituzioni globali servono a promuovere, in molti casi, un mondo migliore, ma sono nello stesso tempo unaccountable, mancano di trasparenza e sono manipolate dalle forze responsabili delle più sfacciate violazioni delle norme internazionali.
L’arena principale della governance mondiale è la stessa di 60 anni fa, ed è quella delle Nazioni Unite e delle cosiddette “istituzioni di Bretton Woods” con i loro derivati: Banca Mondiale, Fondo Monetario, WTO, Banche Regionali di Sviluppo. Ciò significa che dobbiamo democratizzare e rafforzare i loro mandato originari. Aggiungendo, se necessario, nuove funzioni e mandati. Ed abolendo anche i rami secchi e le inefficienze più evidenti.
Questa è la stessa arena del governo mondiale, e non dobbiamo avere timore di evocarne lo spirito. Le due maggiori obiezioni all’idea del governo mondiale sono: a) il profilo autoritario che esso potrebbe assumere; b) l’allargamento del gap tra i cittadini ed i processi democratici che la sua realizzazione potrebbe comportare.
La seconda critica è superabile attraverso la proposta di creazione del Parlamento Universale, e di ciò parleremo più avanti.
La risposta alla prima obiezione è che basta limitare le prerogative centrali di un governo democratico del mondo al controllo del processo di disarmo ed allo scoraggiamento attivo dei conflitti attraverso un corpo di polizia mondiale.
Il resto del sistema internazionale non ha bisogno di una parallela centralizzazione. L’economia internazionale, soprattutto nel suo lato finanziario, necessita di un meccanismo di regolazione universale semplice, “leggero” e fair verso i paesi più deboli. Il compito di correggere squilibri e disuguaglianze può essere lasciato ad entità regionali e locali, espresse direttamente dai soggetti interessati e che accrescono anche la trasparenza e l’accountability dei processi decisionali. Ed è precisamente questo che sta accadendo, sulla scia dell’aumento dei prezzi del petrolio che ha determinato un monumentale travaso di ricchezza dal Nord al Sud e all’Est del pianeta.
I cambiamenti in questo campo sono diventati tumultuosi: Lo shock dei prezzi petroliferi è stato preceduto dalla crisi asiatica del 1997-98, ed è stato seguito a ruota dalla più grave crisi finanziaria dai tempi del 1929. Il Fondo Monetario Internazionale è stato messo alle corde in primo luogo da se stesso, cioè dalla sua faziosità pro-USA, e in secondo luogo dall’affluenza finanziaria di alcune nazioni del Terzo Mondo che non sono costrette più a ricorrere alle sue terapie. Il Fondo Monetario non è più in grado di dettare legge alla maggior parte dei paesi in difficoltà. Le nazioni bruciate dalla crisi asiatica del 1997-98 hanno accantonato riserve di valuta pregiata enormi, e non mendicano più aiuti a Washington.
L’intera America Latina - quasi 500 milioni di persone – è in rivolta. Il volume dell’assistenza economica internazionale del solo Venezuela ha superato, in America Latina, quello degli Stati Uniti. Brasile, Argentina e Venezuela hanno creato una banca multilaterale regionale, il Banco do Sur, in diretta concorrenza con le banche di Bretton Woods e il FMI.
Il declino del portafoglio prestiti del FMI negli ultimi quattro anni ha superato i più radicali auspici dei manifestanti new global: è passato da 105 a 10 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali va a due soli paesi: la Turchia e il Pakistan.
Il Fondo è diventato l’ombra di se stesso per via dell’emergere del BRIC - il blocco Brasile, Russia, India e Cina – come polo più onesto ed amichevole di aiuto internazionale. I governi dell’Asia Orientale, dopo il fallito tentativo di dare vita all’AMF (l’Asian Monetary Fund) proposto dal Giappone, hanno formato il meccanismo finanziario dell’ “ASEAN Plus Three” che esclude gli Stati Uniti e che condurrà molto probabilmente alla creazione di una vera e propria agenzia finanziaria regionale completamente autonoma da Washington e dal FMI.
Non stiamo suggerendo, quindi, niente di stravagante. Questa strada dell’evoluzione della governance finanziaria globale è la stessa di quella che si è affermata all’interno delle democrazie liberali più avanzate: un monopolio centrale della forza fisica da un lato, ed una panoplia di combinazioni organizzative nel campo economico e finanziario dall’altro.
I teorici della governance democratica - che è una corrente di pensiero impegnata a disegnare le istituzioni della futura democrazia cosmopolita - negano con forza qualunque parentela dei loro concetti con quello del governo mondiale o di uno stato mondiale centralizzato: «La democrazia cosmopolita non deve essere confusa con il progetto di un Governo Globale - che deve necessariamente basarsi sulla concentrazione della forza in una sola istituzione – al contrario, si tratta di un progetto che auspica delle alleanze volontarie revocabili tra istituzioni governative e metagovernative, e dove la disponibilità del potere di coercizione viene in ultima istanza condivisa tra gli attori e soggetta a controllo giuridico» scrive Archibugi .
Sono in disaccordo con questa versione della governance futura che esclude il disarmo globale e il monopolio universale della violenza. E’ troppo ingenua, perché presuppone una capacità auto-affermativa delle norme che non esiste nella realtà dei comportamenti umani e di quelli degli stati. O meglio, non esiste nel grado richiesto dagli scopi della democrazia cosmopolita.
La maggior parte degli esperti di relazioni internazionali concordano sul fatto che il più grande ostacolo all’eliminazione dei conflitti internazionali è l’assenza di una autorità legittima centrale capace di imporre regole contro la guerra. E questa capacità, aggiunge chi scrive, deve essere resa indipendente dal progresso etico, il cui sviluppo non è lineare e può conoscere lunghi periodi di arretramento.
Abbiamo bisogno di un centro universale della coercizione legittima in grado, per il fatto stesso di esistere, di proibire il ricorso alla violenza “privata” (cioè all’aggressione tra stati e alla guerra) e i intervenire a difesa dei diritti umani fondamentali.
Se invochiamo “alleanze volontarie revocabili che condividono il potere coercitivo” ci esponiamo alla facile obiezione - già mossa da Hegel a Kant a proposito del progetto di Federazione degli stati avanzato nella “Pace Perpetua” - secondo la quale, non sottoposta ad un potere coattivo al di sopra delle parti capace di far osservare il patto fondamentale di non violenza, la democrazia cosmopolita è obbligata a consentire ad ognuno dei membri di uscire a suo piacimento dall’ambito della democrazia stessa, lasciando il sistema delle relazioni internazionali in balìa della provvisorietà e dell’incertezza.
E’ qui che la cosiddetta “analogia domestica”, quella con la vita interna agli stati sovrani, mostra la sua efficacia. La pacificazione tra i cittadini degli stati più efficienti, e in particolar modo tra i cittadini delle democrazie, ha raggiunto livelli molto alti, inferiori a due vittime di omicidio per ogni 100mila abitanti. Questo genere di pace è stata conseguita dagli stati-nazione attraverso l’eliminazione della violenza privata e l’affermazione di un’amministrazione pubblica della giustizia. Lungo questo processo, il potere di uso della forza è stato svincolato dalle fluttuazioni di “alleanze volontarie e revocabili” tra i detentori dei mezzi di coercizione, e non è stato disperso tra gli attori, bensì concentrato in una unica, stabile fonte di legittimità.
E’ per queste ragioni che, a livello internazionale, il disarmo generale, la proibizione legale della guerra e la creazione di una forza permanente di polizia sotto l’autorità di un ente democratico universale devono essere le architravi di ogni sforzo di governance democratica.
In queste condizioni, il pericolo della tirannia universale viene largamente scongiurato. L’origine del processo di disarmo e di concentrazione dei mezzi di distruzione non è in questo caso la forza sovrastante di uno stato egemone, superiore a tutti gli altri dal punto di vista economico e militare, cui essi finiscono col soggiacere, ma un patto federativo. Un atto giuridico-politico non dissimile da quello stipulato tra le tredici colonie degli Stati Uniti d’America, o dai trattati costitutivi dell’Unione Europea.
La messa fuori legge della guerra e la creazione di un monopolio dei mezzi di coercizione ci consentono di mettere al sicuro i progressi avvenuti dopo il 1945 con la fine del colonialismo, la diffusione della democrazia e l’affermazione della pace internazionale come valori supremi e come dati di fatto irreversibili. Ci consentono di rendere non più aleatorio l’evoluzione etico-politica che ha reso obsoleta la guerra, distruggendone una delle sue funzioni storicamente più importanti: il suo essere lo strumento di verifica dei rapporti di forza tra le grandi potenze e il veicolo dell’ascesa della nuova potenza egemone. Il fatto che la strategia di ascesa della Cina a nuova potenza egemone si svolga sul terreno della crescita economica e della tessitura di relazioni internazionali pacifiche, è un prezioso segno di questa evoluzione.

L’esempio dell’Unione Europea
Qual’è l’incentivo ad avallare un simile progetto per l’attuale quasi-monopolista della forza mondiale, gli Stati Uniti d’America, uno stato la cui presenza nello spazio, negli oceani, e sulla terraferma tramite un rete di oltre 700 basi militari che abbracciano il pianeta rende appropriato l’uso del termine “stato globale”?
Se accettiamo l’idea che l’obiettivo del governo mondiale non ha senso perché esso già esiste in quanto l’America si comporta come il governo mondiale del ventunesimo secolo, il discorso è presto concluso. Ma per accettare questo argomento dobbiamo concordare con chi sostiene che gli Stati Uniti non sono un impero come quelli del passato perché non predano risorse dai sottoposti e forniscono gratuitamente un bene pubblico di importanza suprema quale la sicurezza internazionale. In questo volume abbiamo denunciato questo modo ingannevole di concepire il ruolo degli Stati Uniti, creatori di minacce inesistenti dalle quali pretendono di proteggerci a prezzi diventati altissimi.
Chi crede che gli USA siano il governo mondiale del ventunesimo secolo deve essere preparato a condividere la logica di Michael Mandelbaum, il noto politologo americano che ha elaborato questa idea. Egli sostiene che gli USA forniscono sicurezza al mondo allo stesso modo del proprietario di una residenza patrizia che paga le guardie che gli proteggono la casa, e così facendo protegge le più umili abitazioni che la circondano, e che usufruiscono gratuitamente del servizio di protezione. Gli Stati Uniti del ventunesimo secolo, secondo Mandelbaum, «non sono il leone del sistema internazionale, che terrorizza e rapina gli animali più piccoli e più deboli per sopravvivere. Sono piuttosto l’elefante, che sostenta un'ampia varietà di altre creature - mammiferi più piccoli, uccelli ed insetti - generando del nutrimento per loro mentre si occupa di nutrire se stesso».
Bene. Chi non si trova a proprio agio nei panni di un parassita dell’elefante globale ha a disposizione tre ulteriori argomenti a favore di un monopolio mondiale della forza in grado di attrarre il sostegno degli Stati Uniti: il “dividendo della pace”, l’esempio dell’Unione Europea e il progresso della sicurezza globale.
E’importante rendersi conto di quanto sia immenso il “dividendo della pace” che una istituzione globale, capace di mantenere la pace tra gli stati, sarebbe in grado di distribuire ai cittadini americani in primo luogo, ed a quelli della terra poi, per effetto della riduzione al minimo delle spese militari. Il bilancio americano per la difesa ammonta oggi a metà delle spese militari mondiali, avendo raggiunto la cifra di oltre 500 miliardi di dollari nel 2007. Come abbiamo visto, queste sono le cifre ufficiali, ma l’esborso effettivo supera i mille miliardi di dollari.
La drastica riduzione di questo bilancio che si accompagnerebbe alla costruzione di una autentica sicurezza globale, rappresenta un forte incentivo per tutti i cittadini americani ad unirsi nell’appoggio alla creazione di un monopolio mondiale della violenza. Mi rendo conto che non è facile convincerli del fatto che il loro paese non è sul punto di essere invaso o attaccato da nessun altro stato, e che la protezione da pericoli come il terrorismo islamico non richiede di pagare il pedaggio richiesto dal complesso militare-industriale.
Ma sulla stessa lunghezza d’onda possono essere trasmessi anche altri messaggi. Come quello che non è necessario fuggire nel regno dell’utopia per trovare esempi di strategie di difesa collettiva che non si basano sulla costruzione di armi sempre più potenti, ma al contrario prevedono la riduzione dei mezzi di distruzione e la loro sostituzione con strumenti più adeguati ed efficaci.
Non è necessario andare molto lontano. Basta guardare a cosa ha fatto e sta facendo l’Unione Europea in termini di creazione di una polizia sovranazionale, di una forza di intervento rapida, e di diminuzione degli armamenti tradizionali.
L’Unione Europea sta procedendo verso la creazione di uno spazio giuridico unificato, dove disposizioni giuridiche sovranazionali come il mandato di cattura europeo, agenzie sovranazionali investigative e giudiziarie come EUROPOL ed EUROJUST stanno duplicando per il momento le corrispondenti entità a livello degli stati membri, ma all’interno di una coerente direttiva di marcia.
Il modello di una forza di intervento sovranazionale più forte delle strutture del peacekeeping delle Nazioni Unite, è la Forza di Reazione Rapida in via di costituzione in seno all’Unione Europea: 60mila soldati pronti ad intervenire nei luoghi a rischio per operazioni di risoluzione dei conflitti, e che assomigliano all’esercito permanente dell’ONU che fu istituito per pochi mesi ai tempi del primo Segretario Generale.
La trasformazione dell’Europa in un esempio di democrazia cosmopolita si sta svolgendo tramite il processo del suo allargamento a nuovi stati. L’espansione dell’Unione da un semplice accordo tra sei stati agli attuali 27 paesi con una popolazione di oltre 500 milioni di persone è avvenuta nel contesto di una accentuata diminuzione dei budget militari. L’ultima decade del ventesimo secolo sarà ricordata come un epoca di consistenti tagli dei bilanci della difesa, di riduzione della produzione di armi e di smantellamento degli arsenali in Europa e in Russia.
Gli Stati Uniti spendono oltre il doppio dei 27 stati membri dell’Unione Europea in materia di difesa. Gli USA hanno pianificato una ulteriore espansione delle spese militari nei prossimi anni, mentre l’Unione Europea ha deciso di mantenerle invariate. Il gap transatlantico è perciò destinato ad allargarsi ancora di più.
Questo gap è all’origine di una controversia infinita, e viene interpretato in due modi molto diversi tra di loro. Henry Kissinger, i neo-cons e vari altri sostenitori della concezione dell’ hard power ricordano di frequente agli europei che la potenza militare raggiunta dagli USA rispetto al resto del mondo non ha precedenti, e che non esiste perciò alcun paese o gruppo di paesi – adesso e nel prevedibile futuro – in grado di mettere in atto una sfida militare agli Stati Uniti.
Il modo di vedere che prevale in Europa è che questa interpretazione è corretta nella lettera, anche se sbagliata nello spirito a causa dell’arroganza che vi traspare. In effetti, nessun paese sta sfidando gli USA. Ma ciò avviene perché nessuno è interessato a sprecare risorse in navi e cannoni, e l’impegno emulativo prevalente nella comunità internazionale non avviene sotto forma di una corsa agli armamenti ma in termini di competizione economica e di miglioramento delle condizioni di vita dei propri cittadini. I cittadini europei e del resto del pianeta preferiscono costruire la pace attraverso strumenti diversi dalla preparazione della guerra.
La sicurezza internazionale, con il suo costante miglioramento dopo la fine della guerra fredda, rafforza ogni giorno di più questo modo di pensare, che si traduce in una crescente avversione alla guerra.
Esistono perciò diverse motivazioni razionali perché gli Stati Uniti accettino l’idea di un monopolio mondiale della forza esterno ai loro confini. Si può dire, allora, che esistono due strategie contrapposte di difesa, quella europea e quella degli Stati Uniti, l’una militare e l’altra civile?
Si, certo. Nel corso degli ultimi decenni si sono formate due concezioni della sicurezza: una è impersonata dalla “potenza militare” americana che pretende di fornire sicurezza su scala globale attraverso una macchina bellica che non ha paragoni nella storia; l’altra risiede nella “potenza civile” dell’Unione Europea che basa questa pretesa sugli accordi commerciali, l’assistenza economica, la promozione dello sviluppo internazionale e le missioni di mantenimento della pace.
Le concezioni della sicurezza non sono altro che un aspetto delle visioni complessive del futuro. Jeremy Rifkin ha spiegato nel 2004 come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che ha lentamente eclissato il sogno americano. Queste due concezioni hanno finito col contrapporsi in modo netto lungo gli anni ‘90. Gli europei hanno visto sempre più l’America di Clinton e poi di Bush preoccupata di crearsi nemici da combattere con l’uso della forza: stati delinquenti e gruppi terroristici sempre all’opera in complotti anti-occidentali e sempre in procinto di procurarsi armi di distruzione di massa. Il governo USA non si è curato di investire in trattative diplomatiche e compromessi politici in grado di stimolare transizioni dall’autoritarismo e dalla “delinquenza” verso la democrazia.
Gli americani hanno visto gli europei sempre più impegnati a procurarsi dei vantaggi commerciando con i nemici degli Stati Uniti (come l’Iran e la Libia). Senza incomodarsi ad investire negli armamenti necessari a confrontarsi con i regimi ostili. Tanto, c’era il bastone americano dietro l’angolo, pronto a colpire nei casi di emergenza o di fallimento delle strategie soft.
Ma gli europei sono pronti a replicare che contro un paio di casi come la Bosnia e il Kosovo negli anni ’90, dove gli Stati Uniti hanno fornito la forza aerea necessaria per prevalere in quelle guerre, c’è l’apporto decisivo alla soft security mondiale fornito dalla massiccia assistenza allo sviluppo di origine europea. L’Unione Europea provvede al 55% del totale dell’assistenza internazionale, e ai due terzi dell’aiuto sotto forma di contributi a fondo perduto. Ma anche in Bosnia e Kosovo gli europei hanno messo in campo, dopo le guerre, l’80% delle forze di mantenimento della pace ed oltre il 70% dei fondi per la ricostruzione.
Gli europei pensano che la loro politica di sicurezza sia più efficace di quella americana, anche perché è più adatta al tipo di minacce che oggi prevalgono. Se le guerre internazionali sono sempre più rare, e sono i conflitti a bassa intensità quelli dominanti, allora sono più utili strumenti differenti. La politica della sicurezza internazionale dell’Europa di oggi si basa sull’impiego di aiuti economici nelle aree in conflitto, sulla costruzione di dispositivi legali e costituzionali democratici, e sull’uso delle forze armate solo come forze di interposizione, di protezione dei diritti umani e di intervento umanitario.
Questo approccio è espresso con nettezza da Solana, il responsabile europeo per la politica estera e di sicurezza comune: «In contrasto con le minacce grandi e visibili della guerra fredda, nessuna delle nuove minacce è esclusivamente militare, né può essere fronteggiata solo con mezzi militari. Ciascuna richiede un mix di strumenti».

Il Parlamento Mondiale
La proposta del governo mondiale, inoltre, deve andare di pari passo con quella del parlamento universale. Anche qui, è l’Europa l’esempio da seguire. Il Parlamento Europeo è un parlamento sovra-nazionale con ampi poteri, che esprime la volontà di mezzo miliardo di persone. Perché non estenderne l’esempio al pianeta? Ogni essere umano ha diritto ad essere rappresentato nelle sedi democratiche dove si decidono sempre più i suoi destini.
L’attuale crisi delle Nazioni Unite nasce precisamente da qui, dalla loro incapacità di rispondere al loro mandato originario che le obbligava a riferirsi non solo agli stati ma anche ai singoli individui. La dimensione universalistica dell’organizzazione - “noi, il popolo delle Nazioni Unite” – non si riflette adeguatamente nella sua configurazione istituzionale. La sorgente di legittimità dell’ONU è nei diritti dell’individuo come membro della razza umana, come cittadino del pianeta, e ciò deve riflettersi in ogni progetto di nuova architettura.
C’è un largo deficit democratico da colmare, dando ai cittadini del mondo, senza riguardo alla loro nazionalità, una voce diretta negli affari mondiali. Un numero crescente di persone sono frustrate dal fatto che decisioni cruciali per la loro vita non vengono più prese da istituzioni sulle quali essi hanno influenza, ma si sono spostate verso organi internazionali che non rendono conto ad alcuna costituente democratica. Le organizzazioni multilaterali sono delle macchine diplomatiche, politiche e militari molto lontane dal controllo popolare.
Qualunque serio tentativo di riformare le Nazioni Unite tenendo conto del loro deficit democratico deve perciò prendere in considerazione l’idea di un organismo popolare eletto globalmente, e capace di trasformare le relazioni internazionali da un campo di esclusiva pertinenza governativa ad una arena democratica, dove rappresentanti popolari eseguono mandati democratici.
Prima della globalizzazione, una idea come questa poteva essere considerata utopica. Ma la rivendicazione di partecipazione diretta dei cittadini alle questioni internazionali non può più essere ignorata. Specialmente dagli stati membri dell’ONU che vanno orgogliosi delle loro procedure democratiche.
Si dice spesso che i governi che non vengono eletti liberamente mancano di legittimità politica. Ma noi ci troviamo a vivere in un ordine globale squisitamente non-democratico, dove decisioni cruciali vengono prese da funzionari che non sono stati eletti da nessuno, e che non rispondono a nessuno dei loro atti. Tutti i cittadini dei regimi democratici godono di una fondamentale prerogativa che li intitola a partecipare alle decisioni che riguardano la loro vita. Perché questa prerogativa deve essere limitata al campo della politica interna, e non deve riguardare processi globali che influenzano direttamente la vita collettiva?
Sebbene il potenziale politico per iniziare una democratizzazione dell’ONU sia già in corso di crescita, ciò non è sufficiente. Come realizzare, allora, un Parlamento Mondiale, un parlamento di tutti gli abitanti della terra da associare alla attuale Assemblea Generale composta di stati, dando luogo ad una specie di legislatura bicamerale mondiale?
Uno strumento utile può essere quello adoperato negli anni ’90 per il conseguimento di importanti successi come il Trattato di Kyoto sul global warming, la convenzione contro le mine antiuomo, il Trattato che istituisce la Corte Penale Internazionale e la Convenzione di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale.
Voglio dire un Trattato promosso da una alleanza tra la società civile (organizzazioni senza fine di lucro, associazioni volontarie, business groups, ecc.) ed i cosiddetti middle powers. Guardiamo un po’più da vicino i soggetti di questa alleanza.
Iniziamo dalla società civile universale, un entità che ha iniziato a giocare un ruolo talvolta determinante nella politica internazionale. Il numero delle NGOs internazionali è cresciuto esponenzialmente negli anni ’90, passando da 6mila a 26 mila, e comprendendo entità che vanno dal WWF, il Fondo Mondiale per la Natura con 5 milioni di aderenti, a piccole associazioni di nicchia. Le NGOs sono diventate una potenza economica, e sono ormai in grado di trasferire più risorse della stessa ONU. SI tratta di una componente nuova del sistema internazionale, che critica spesso le manchevolezze della globalizzazione, e che si batte per la trasparenza delle organizzazioni multilaterali.
L’alleanza tra la società civile e un gruppo di piccoli e medi stati value-oriented, sensibili cioè ai valori ed ai richiami della solidarietà umana, è cruciale per il programma di democratizzazione delle Nazioni Unite e per la realizzazione del Parlamento Universale.
All’interno dell’ONU si è formato un gap piuttosto rilevante tra i middle powers, le “medie potenze” come esse si definiscono, da una parte, e le nazioni che perseguono strategie più orientate verso la massimizzazione del proprio potere e della propria ricchezza dall’altro. Le medie potenze sono paesi come quelli scandinavi più il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e un numero variabile di nazioni in via di sviluppo come il Messico, il Brasile ed altri.
I middle powers sono stati che hanno deciso di andare oltre il ruolo di luogotenenti delle grandi potenze, hanno rinunciato alla corsa agli armamenti nucleari, ed hanno un curriculum di mediatori e risolutori di problemi negli affari internazionali. Poiché essi ambiscono alla leadership morale della comunità internazionale, essi sono molto sensibili alle questioni che le grandi potenze si rifiutano di trattare. I middle powers sono campioni della giustizia internazionale e della pace mondiale, dei diritti umani, del disarmo e dell’eliminazione delle armi atomiche. Si battono contro i bambini-soldato, il turismo sessuale, le mine antiuomo e le bombe a frammentazione.
L’alleanza tra questi stati e la società civile universale può produrre il testo di un Trattato che istituisce una assemblea, e sulla base di questo testo si possono iniziare dei negoziati. Il processo che può portare alla realizzazione di questo Trattato è stato descritto da Falk e Strauss: «La società civile potrebbe organizzare una campagna di pubbliche relazioni e persuadere gli stati (attraverso dei compromessi se ciò si rendesse necessario) a firmare il Trattato. Come nel processo che ha portato infine alla Convenzione contro le mine antiuomo, un piccolo gruppo di paesi potrebbe aprire la strada. Ma a differenza di quel Trattato, che ha richiesto la ratifica di 40 stati prima di entrare in effetto, un numero relativamente più ristretto di paesi (diciamo 20) potrebbe fornire la base costituente di una assemblea di questo tipo. Questo gruppo è solo una frazione di quanto sarebbe necessario perché una simile assemblea abbia qualche pretesa di legittimità democratica globale. Ma una volta che questa assemblea diventasse operativa, il compito di guadagnare membri addizionali diventerebbe più facile. Ci si troverebbe di fronte ad una organizzazione alla quale i cittadini potrebbero chiedere ai loro governi di aderire. Man mano che gli stati iniziassero ad aderire, aumenterebbero le pressioni sugli stati membri per spingerli a partecipare. L’assemblea verrebbe a questo punto incorporata nell’ordine costituzionale internazionale in evoluzione».
L’avvento di un organo democratico internazionale come il Parlamento Mondiale incontrerebbe ostacoli formidabili: i regimi autoritari lo osteggerebbero perché esso li costringerebbe a far votare i propri cittadini secondo standard elettorali avanzati. Gli stati che fanno parte del Consiglio di Sicurezza non gradirebbero un potente competitore nel campo della risoluzione dei conflitti internazionali.
Tuttavia, dal momento che il numero dei regimi non democratici si contrae di anno in anno su scala mondiale, e l’unico paese non democratico appartenente al Consiglio di Sicurezza (la Cina) beneficerebbe largamente di un sistema elettorale per l’Assemblea Universale basato sul principio “un individuo, un voto” (non importa quanto “corretto”), questo ostacolo non sarebbe, nel lungo periodo, insormontabile.
La più forte opposizione al Parlamento Universale arriverebbe quasi sicuramente dal governo degli Stati Uniti. Anche se la seconda camera delle Nazioni Unite verrebbe alla luce senza poteri deliberativi, l’unilateralismo degli USA nelle questioni internazionali non favorirebbe la creazione di un organismo mondiale dotato di un grado di legittimità senza precedenti. Un Parlamento Globale democraticamente eletto dai cittadini del pianeta deterrebbe una tale autorità morale da rendere estremamente difficile, anche per una superpotenza, contrastare le sue raccomandazioni.
Il governo americano lo considererebbe come una seria minaccia alla sua predominanza internazionale e mobiliterebbe le sue risorse contro ogni piano per crearlo. Per superare una simile preclusione da parte statunitense, l’alleanza tra middle powers e società civile potrebbe non essere sufficiente. Dovrebbe emergere un centro alternativo di potere in grado di sostenere il progetto della democrazia globale. Secondo alcuni scienziati politici come Levi, è ragionevole pensare che l’Europa potrebbe giocare tale ruolo.
L’Unione Europea è la regione del mondo dove un prototipo del Parlamento Universale opera da ben 40 anni. Il Parlamento Europeo è stato creato nel 1957. Insieme alla Commissione Europea e al Consiglio dell’Unione Europea, è uno dei tre organi dell’Unione.
In una prima fase, i delegati al Parlamento Europeo erano nominati dai parlamenti nazionali, ma dal 1979 in poi i cittadini hanno eletto direttamente i loro rappresentanti. Sebbene abbia iniziato ad operare come un entità largamente consultiva, la sua natura di organo la cui rappresentanza è espressione diretta degli elettori ha finito col creare un inarrestabile spinta verso l’assunzione di poteri. Nell’anno 2000 il Parlamento Europeo ha fatto cadere la Commissione Europea con un voto di sfiducia. Adesso, dopo i Trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza degli ultimi dieci anni, il Parlamento Europeo ha conquistato poteri di veto sull’80% della legislazione dell’Unione. Lo stesso Parlamento ha già approvato una mozione in favore di un piano per la costituzione del Parlamento Mondiale.
L’unificazione europea si è svolta durante un processo di superamento sia dello stato-nazione che della sua tendenza verso la rivalità e il dominio degli altri stati. Gli stati membri dell’Unione sono democrazie avanzate, dove le tendenze militariste ed aggressive si trovano ad un minimo storico. Il blocco di potere intorno alla spesa militare ha un peso molto scarso nell’opinione pubblica e nella politica di tutti i paesi. L’embrionale politica estera dell’Unione Europea non ha perciò aspirazioni egemoniche.
Si può assumere, quindi, che l’obiettivo dell’Europa non sarà la sostituzione degli Stati Uniti come superpotenza mondiale. E’ più probabile che il vecchio continente persegua una politica di cooperazione con gli USA, tentando di gestire insieme l’ordine mondiale, in alleanza con la Cina, l’India, le altre potenze emergenti e i raggruppamenti regionali. Questo processo può generare una forza sufficiente a convincere gli Stati Uniti a cessare la loro opposizione al Parlamento globale e alla crescita di un ordine democratico universale.